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SANTUARI

dal IV sec. a.C. al IV sec d.C.


(Tratto e adattato da ARNOSTI G., Salvare il santuario di Vetusa, in "Il Quindicinale", Vittorio V.to, a.VI, n.11, p.2, del 13.6.87).

VETUSA

(UN SANTUARIO DEI VENETI ANTICHI).


A Villa di Villa in comune di Cordignano esiste, ma ancora per poco, un sito collinare davvero straordinario, che tuttavia pochi conoscono. A metà del poggio si apre, ma è minacciato dalle ruspe delle cave di carbonato, un millenario luogo sacro agli Antichi Veneti. Ora non rimane che un semplice pianoro in pendenza che si distende sopra due grotte diroccate in fase senile. Se uno gratta appena il terreno possono apparire dei frammenti di vasi in terracotta, o qualche residuo di lamina bronzea degli antichi ex-voto al nume del luogo. A poca profondità esistono ancora i resti in pietra e calce delle fondazioni del sacello.
Poco è rimasto.
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Eppure duemila e più anni fa, in un bel dì di festa, avresti potuto assistere all’affollata processione che saliva il colle in onore e per venerare VESUTA, la dea molteplice.
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I supplici avanzano spediti allo strepito delle doppie tibie o dei corni che soverchia il biascicare sommesso delle “antanìe”.
Alcuni indossano vesti fino al polpaccio e mantelli, altri solo tuniche cinte da fasce; qualcuno ripara il capo con un buffo cappello a larga tesa, il petaso. Le donne usano uno scialle stretto alla gola per coprire il capo, e una veste a pieghettature verticali protetta sul davanti da un grembiale quadrettato (coloratissimi, come usavano le donne venete ancora nell’ottocento); talune calzano bassi stivali col bordo rivoltato, altre procedono leste a piedi nudi.
Quasi tutti portano doni alla dea: alcune donne tengono fascine sul capo, o recano volatili in gabbiette di legno. Lavskos tira una capra, con le corna decorate da ghirlande di fichi. Altri acquisteranno gli ex-voto alla fiera del santuario. Il mercante, guardando la folla salire, considera che col favore della dea sanante lui farà buoni affari, e al riparo della sua bancarella riprende di buona lena a martellare le sottili lamine in bronzo col simulacro della patrona. E pensa ai bei tempi andati in cui per chiedere la prosperità delle mandrie, alla “signora delle fiere” si offrivano animali in carne ed ossa; ora invece, buon per lui, la benedetta dea si accontenta di ricevere le pur costose laminette a forma di pelle di bue, con figure di tori impresse a punzone.
E faceva le grazie, anche!
Qualche devoto aveva ottenuto la guarigione del braccio, di una gamba, altri la fecondità; e per quei pii si stampigliano, a richiesta, lamelle decorate con figurazione di arti, o con altre sagome dell’anatomia umana.
I giovani di leva chiedono di essere forti e valorosi in guerra, ma di tornare sani e salvi dalle battaglie, e porgono al nume bronzetti a forma di guerriero ignudo con lancia e scudo.
Eh si! ha proprio il suo bel daffare il fabbro-orefice catubrino, con tutte quelle figurette maschili da stampare a doppia o singola matrice.

Qualche supplice le richiedeva a fattezze femminili e lui non si peritava di adattarle con lime e sgorbie!
Gli atleti riuniti nel piazzale per la festa si allenano alla lotta con manubri o antère; e tutti in cuor loro si illudono di poter vincere la ricca gàlea in palio col fluente lophos. Essi col loro schiamazzo per eccitarsi sono però molesti al venditore di situle, che per farsi meglio sentire e vedere dalla folla accalcata si arrischia di salire su di una secchia capovolta.


Un vasaio di ascendenza gallica, poco lontano lavora abilmente al tornio bicchieri d'argilla grigia a pareti sottili e li decora con festoni, globetti e foglie d'acqua: sono una meraviglia! Assomigliano proprio alla produzione più preziosa in vetro o in argento. Peccato - recrimina - che essi abbiano una breve durata: i devoti, dopo aver libato con acqua salutifera, avrebbero lanciate quelle magnifiche coppe nelle fosse del sacrario.
E’ davvero un peccato! ma il suo borsellino rimanda un soave tintinnar di dracme d’argento e d’oboli quand’egli soprappensiero di tanto in tanto lo scuote. Con la fronte corrugata e lo sguardo proteso verso l'incognito e l’infinito, il pontefice ausculta lostormir delle fronde, gli enigmatici voleri della dea. Ne viene distolto solo per un attimo dal crescente trambusto della festa e dal sacro frastuono processionale che sale dalle pendici del colle al santuario; e, senza il minimo moto d'impazienza, tratti gli astragali con consumata perizia vi legge i buoni presagi per la trepida cliente.
Due distinti signori con lungo tabarro e berretto a ciambella, la causia, bruciano preziose spezie sullo strano tripode con sostegni in calamo (di esclusiva produzione patavina, ma raffigurato sulle situle in bronzo di tutto l’ecumene). Il profumo salendo si mischia con l’acre fumo delle are
sacrificali, ed essi si figurano che la buona dea dall'alto del sacro monte mostri di gradire e rivolga loro benevola il suo sguardo.


Qualcuno si accosta agli accoliti che dagli spiedi in ferro o dalle olle in terracotta distribuiscono le carni arrostite o lessate dei sacrifici per il pasto comunitario.
In cielo pazienti svolazzano le cornacchie, altre in fila sui recinti pregustano ormai il tempo dei doni di focacce per propiziare i raccolti. E all’interno del bosco sacro del santuario i lupi sono prodigiosamente trattenuti dal cacciarvi i cervi.
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Anche un ricco possidente romano da poco trasferitosi in una fattoria della pianura centuriata sale al santuario per onorare il nume indigeno. Non conosce ancora Vesuta, ma la vede raffigurata con tunica a balze, stivali e con uno strano copricapo con frontino rialzato e tutulo; sul braccio sinistro tiene una ghirlanda vegetale, il tirso divino, ed una leontèa pendente (proprio come usa Ercole nel santuario di Lagole!). A volte la dea è rappresentata come una filatrice, ed il romano rabbrividisce al pensiero delle fatali Parche. Ma si ricrede subito: il nume ha piuttosto elmo, scudo e lancia: proprio come Minerva! Altre volte sui “santini” in sottile lamina enea le figure sacre sono due: forse un tempo al santuario si venerava un nume doppio, come presso gli Illiri?
Mah! Ad ogni buon conto il nome Vetusa iscritto in latino su qualche ex-voto, suona come quello di una divinità connessa col fluire del tempo e col ciclo delle stagioni: un nume agreste dunque! Al ricco possidente terriero la nostra Vesuta appare di colpo propizia, e dal suo borsellino scuce subito volentieri due argentei vecchi denari.


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(tempus currit)
Tutto bene, tutto tranquillo? Purtroppo no! Giù in pianura si trema ancora al pensiero delle scorrerie di barbari da oriente, e la gente corre al santuario a impetrare la protezione della dea armata; lascia in dono laminette geometriche (in gran numero!) ritagliate a forma di città murata, o di ponte munito sopra due corsi d’acqua. I tronchi del santuario ne sono letteralmente tappezzati.
Di quando in quando gli adepti le raccolgono e le depositano con devota cura nelle favissae del sacrario. Nessuno ne approfitta.


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Le traversie non sono però finite; e non ci sono né vota né expiatio che freni la determinazione degli
imperatori della fine del IV secolo a distruggere templa, fana e delubra, cari invece alla sensibilità delle comunità rurali.
Questa una cronaca riferita ad altri giorni.


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Poi il celebrato santuario di Vetusa è stato sconvolto o abbandonato; e il tempo ne ha dimenticato per secoli il sito e il nome.
Noi non vorremmo che esso fosse fatto sparire dalle ruspe per sempre.
Perché togliere a turisti, a scolaresche, a noi tutti la possibilità quantomeno di sostare su un autentico e rarissimo luogo di culto degli Antichi Veneti?

 


Un appello alle persone sensibili, agli amministratori e agli enti competenti:
SALVIAMO IL SANTUARIO DI VETUSA.
[Altri santuari o luoghi sacri dei Protoveneti, sono stati individuati, nell’Antico Cenedese. In ordine d’importanza:
Al Monte Altare, sopra Ceneda di Vittorio Veneto;
a Castello Roganzuolo di San Fior; a Pra’ della Stalla di Orsago; a Scomigo di Conegliano;

Reperti di tipo votivo sono poi distribuiti in qualche altro sito di pianura (a Borgo Saccon di San Vendemiano), di collina (a Tarzo; alla Madonna della Salute a Vittorio Veneto) o d’altura (sul colle del Sant’Augusta di Vittorio
Veneto e del San Daniele di Fregona) a testimonianza della diffusa sacralità degli ambienti naturali, e della continuità
del sacro].

 

 

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